Mesi fa ho scritto un post dal titolo “ Mutazione psicosociale o antropologica da virus?”.
Mi chiedevo se il cambiamento cognitivo affettivo e relazionale sarebbe stato transitorio o profondo.
Me lo chiedo anche oggi, constatando quanto ci si adatti alla nuova realtà riuscendo a trovare, come è normale che sia, positività. Tanti lavoratori pendolari che, oggi, se impegnati in lavoro in remoto, vivono tempi di vita diluiti e non vorticosi.
In una città grande come Roma, penso al tempo che trascorrevamo in macchina per raggiungere gli uffici o i differenti luoghi di lavoro.
Oggi alcuni vanno in ufficio due giorni a settimana e dichiarano che si sentano stanchi ad uscire presto di casa; si sono disabituati e si chiedono come siano riusciti a sostenere certi ritmi di lavoro e di vita per tanti anni.
Come c’è chi afferma che sia lieto di non dover abbracciare o stringere la mano alle persone perché prima, quando si poteva fare, non aveva piacere di farlo ma si sentiva costretto a farlo.
Altri raccontano che la pandemia li abbia legittimati a stare a casa e ne sono contenti.
Questi racconti mi portano a riflettere su ciò che sta accadendo.
Immaginavo che ci saremmo abituati a nuove modalità.
L’essere umano lo sa fare ed è straordinario!
Mi chiedo, però, se l’abitudine di nuove modalità ci farà, o ci ha già fatto perdere la voglia di socialità autentica?
Per alcuni sta avvenendo questo.
Si stanno abituando all’isolamento, a contatti minimi o per un tempo irrisorio per poi ritornare alla protezione della propria casa.
Un ritiro prima imposto che oggi rischia di essere ricercato come unica possibilità di vita.
L’interazione con l’altro, per alcuni, sta diventando faticosa, invasiva, da evitare.
Siamo esseri sociali, in noi è connaturato il bisogno di relazione, di contatto, scambio.
Ora sta a noi!
Speriamo che non prevalga la voglia di solitudine, isolamento e chiusura, ma che sia il momento adatto per vivere nuove modalità di contatto che siano più intense ed autentiche!
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